venerdì 30 marzo 2012

255. 2 belle chiacchiere con Ahdaf Sweif.

Compendio di un'intervista di Radiopopolare
Cairo, per tutti gli egiziani, è anche Masr, la stessa parola che si usa per definire l’intero paese. Masr, Egitto, e il Cairo è la parte per il tutto. Lo stesso è successo con la rivoluzione. Diffusa su tutto il territorio, da nord a sud. Eppure, di questa rivoluzione difficile e ancora in corso, ricordiamo quasi solo Tahrir, la piazza della Liberazione.
“Ehi, Masr, ne è passato di tempo. Ci eri mancata”, dice un uomo, mentre osserva la folla in piazza Tahrir, il 1 febbraio del 2011. Accanto a lui lo ascolta Ahdaf Sweif, e dopo poco meno di 1anno ne ricorda questa frase, così semplice, nel suo "viaggio" nella sua rivoluzione, libro appena edito da Bloomsbury, con un titolo che dice già tutto: Cairo, my City, our Revolution.
“E’ vero. La città ha riaffermato se stessa come centro civile del paese”, dice la scrittrice egiziana dalla sua casa cairota nel quartiere di Zamalek. E' tra le più note esponenti della "diaspora" egiziana in Gran Bretagna, giornalista sul "Guardian", autrice di romanzi affascinanti, Ahdaf Sweif ha raccontato la rivoluzione del 25 gennaio 2011 sulle grandi tv britanniche. E la sua doppia anima egiziana e inglese ha lasciato, per il momento, la sua villetta silenziosa di Wimbledon.
“Intendiamoci, gli attivisti di Tahrir vogliono la decentralizzazione. Per esempio, per la riforma delle forze di sicurezza, o quella dei consigli locali rinnovati che dovrebbero avere un ruolo importante”, precisa l’autrice de Il Profumo delle Notti sul Nilo (Piemme). “Il Cairo, però, rimane il cuore della rivoluzione. La città si è ripresa la sua centralità: il potere l’aveva abbandonata da anni al suo destino gestito nei quartieri-bene, nelle città satellite, nelle macchine nere dei cortei ufficiali, praticamente trasferito a Sharm el Sheykh, perché lì  Mubarak riceveva i suoi ospiti stranieri, e convocava i summit internazionali. Non nella capitale, megalopoli da venti milioni di abitanti, un quarto della popolazione egiziana. Al Cairo era stata tolta autorità. La città era stata lentamente uccisa, ma con la rivoluzione è tornata al centro del paese. E ora è tutto un rifiorire di arte, di attività, di vita”. Nonostante la violenza degli ultimi mesi.
La sua Cairo decaduta. La città della sua infanzia, adolescenza, gioventù. La città delle donne della sua famiglia: forti, appassionate. Ahdaf Sweif racconta se stessa, e gli altri intellettuali egiziani, i dettagli della Cairo di un tempo, assieme a una rivoluzione non ancora conclusa.
Una rivoluzione di ragazzi. Dei suoi ragazzi. A piazza Tahrir c’è suo figlio, Omar Robert Hamilton, regista di corti e documentari che con altri attivisti di Tahrir ha creato un collettivo per la produzione e la distribuzione di video su YouTube, Mosiryin. Ci sono i suoi nipoti, i figli di sua sorella Leyla e di suo cognato Ahmed Seif al Islam, entrambi figure storiche dell’opposizione. Figlio e nipoti sono tra gli attivisti più importanti. Mona Seif, che si batte contro i tribunali militari. E soprattutto Alaa Abdel Fattah, a buon titolo una delle figure carismatiche di Tahrir. Un ruolo che, però, a lui sta stretto, nonostante il paese si sia mobilitato, lo scorso autunno, quando un tribunale militare lo ha messo in galera per due mesi, da fine ottobre a Natale, e la sua famiglia è stata a suo modo adottata dalla rivoluzione. “Mi fermavano per strada”, racconta. “Mi chiedevano se ero la zia di Alaa. Mi lasciavano regali per lui. Come quel signore che mi ha fermato, ha aperto il suo portafogli, e ha tirato fuori una piccola foto di sua figlia, dicendomi: ‘Gliela dia, perché è la cosa più preziosa che ho’. Mi chiedevano come stesse sua moglie Manal Hassan, che ha poi partorito il piccolo Khaled,  mentre lui era in prigione.
“Alaa, mio nipote, non è un leader. Lui si definisce un facilitatore. Uno che riesce a tirar fuori quello che la strada vuole. D’altro canto gli attivisti più conosciuti non potrebbero imporre quel che pensano alla piazza”.
Ahdaf Sweif è orgogliosa degli shabab, dei ragazzi. A loro ha dedicato il libro.
“Sono diversi da noi. Diretti. Estremamente sicuri di se stessi. Sanno perfettamente ciò che vogliono. Hanno una precisa coscienza politica, e non sono per nulla ingenui. Certo, li abbiamo tirati su noi: un ruolo che ci riconoscono, con estremo garbo, quando ci dicono che senza la nostra dissidenza non sarebbero dove sono ora”. Nonostante questo garbo, però, Ahdaf Sweif sa perfettamente che a far la rivoluzione sono stati i ragazzi, e non loro, gli ex giovani. “Mi si spezza il cuore”, dice commossa. “Perché sono loro a rischiare. Sono i ragazzi i martiri, gli shuhada di questa rivoluzione. Hanno perso la vita, gli occhi, sono rimasti mutilati. Su questo, l’atteggiamento dei genitori dei martiri è lo stesso: E’ per il loro coraggio che non si può tornare indietro. Perché non siano morti invano”. Un atteggiamento, quello di Ahdaf Sweif, che si può descrivere come romantico? “E allora? Che cosa c’è di male a essere romantiche? Pensi alle richieste semplici, chiare di Piazza Tahrir. Le tre parole che hanno segnato la nostra rivoluzione. Pane, libertà, giustizia sociale. Se questo vuol dire essere romantiche, sì, allora lo sono”.

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