lunedì 4 novembre 2013

338. Riflessioni d'una sindacalista bancaria: sopralluogo in un palazzo in sciopero.

Non pensavo che una giornata di sciopero potesse farmi quest'effetto. Io ho 52 anni, troppo giovane per una pensione, troppo vecchia per un mondo produttivo alla ricerca di forze a cui richiedere un contributo più alto.
Io ho sempre lavorato tanto fuori e dentro casa, con coscienza e con il desiderio di partecipare alla realtà produttiva di questo paese mal gestito ma pur sempre il nostro paese: vedere un palazzo vuoto come fosse sera inoltrata, anzi notte, senza telefoni che squillano, senza schermi accesi, senza il rumore delle stampanti che segnano il passo di un'attività lavorativa che a noi viene richiesto di sentire propria senza che essa lo sia davvero, fa un certo effetto, forse più di quando si è giovani, perché si sa che dietro ad ogni posto di lavoro c'è una storia.
L'attività che molti di noi oggi svolgono in un paese e in aziende incapaci di rinnovarsi non lascia ormai molti margini di soddisfazione ma è pur sempre l'attività che permette al lavoratore di avere una dignità altrimenti difficilmente riconoscibile dalla collettività. Quindi uno sciopero pesa. Forse ha sempre pesato, ma oggi di più.
Quanti amici e parenti abbiamo che hanno perso il posto di lavoro negli ultimi anni, spazzati via da una crisi che non hanno sicuramente voluto né hanno contribuito a creare? Girare per gli uffici vuoti e immaginare i pensieri, i sentimenti, le vite di ciascuno, il portafoglio che è sempre più leggero e con il quale parliamo senza accorgercene, mentre siamo in coda alla cassa del supermercato, è come attraversare un paese dopo una scossa di terremoto: pensieri che girano e rigirano, come sostanza alleata delle nostre braccia, delle dita che volano ogni giorno sulle tastiere davanti ai computer per versare ricchezza in un grandissimo cappello che non appartiene ai lavoratori, a cui è concesso solo guardare da fuori, come attraverso una vetrina.
In questi momenti si capisce cosa è il lavoro: il silenzio di una macchina che non produce in una fabbrica, un computer spento in una banca, il rumore dei passi che sentono se stessi uno dopo l'altro tra gli spazi vuoti e tristi, brutti, di un ambiente produttivo dai contorni sempre decisi da altri ma che, comunque, ci ospita. Sì, perché un ambiente produttivo ha una sua bellezza, ha la bellezza di essere insieme, in tanti, con tanti pezzetti di cose da fare, da mettere in comune per cucire quel grande tappeto su cui, anche se noi non sediamo, ci assicura un posto nella storia, tra i microspazi del suo ordito.
Il silenzio d'uno sciopero è pesante. Si taglia col coltello, come quello di un funerale. Ed è per questo che è ancora più doloroso che chi decide cosa fare e non fare con la ricchezza che noi gli mettiamo a disposizione ogni giorno con le nostre rinunce di carriera, i compromessi con i capi e i colleghi, il tempo regalato e non retribuito, la tolleranza dei clienti che non ci apprezzano perché noi siamo per loro i guardiani del denaro, la flessibilità nell'uso di procedure obsolete, la sopportazione dei demansionamenti e dei trasferimenti, ci costringano a questo gesto estremo, a questa apnea produttiva e relazionale per chiedergli un ravvedimento su un comportamento irresponsabile, egoista, oserei dire, infantile.
Immaginare di poter fare a meno dei lavoratori per produrre, è come immaginare di guidare un'auto senza le ruote. Il lavoro di una macchina è legato saldamente ai suoi ingranaggi e non c'è dinamismo senza intelligenza.
Se agli ingranaggi viene chiesto di fare sempre lo stesso lavoro con meno spessore, meno olio, meno aria, reggendo il peso di una macchina che è sempre più sofisticata e complessa, la macchina alla fine si ferma. Il dolore dello sciopero serve a far capire a chi gioca con la vita delle persone che la macchina richiede responsabilità e coscienza, e una generosità intelligente. Richiede di passare dall'autoritarismo all'autorevolezza, dalla dimensione dei diktat alla dimensione della condivisione della strategia per raggiungere un obiettivo più alto.
Credo che i colleghi che hanno rinunciato ad una giornata di salario per mandare un messaggio forte a chi li considera di importanza secondaria abbiano dimostrato di essere adulti, di saper volare molto in alto, nello spazio dei diritti e della lealtà. Hanno compiuto un sacrificio per far capire a chi guida la macchina che, senza di loro, non è nessuno e questo deve darci la serenità di condurre anche le prossime lotte con la tranquilla determinazione di chi sa di essere dalla parte del bene e della ragione.